Abiti neri, scarpe rosse: quattro attrici irrompono sulla scena, come una arena, al centro del Piccolo Teatro Studio Melato. Niente scenografia, piena luce: l’attenzione è tutta su di loro, protagoniste di Wonder Woman, quattro donne decise a non farsi più dilaniare. All’inizio è una data, 2015: leggono una sentenza tanto nota quanto aberrante. Il pubblico già la conosce, perché aveva fatto scalpore: un gruppo di violentatori viene assolto perché la ragazzina vittima dello stupro, origine peruviana, era troppo brutta. I tre giudici sono donne e affermano che la ragazza doveva essere consenziente, perché non è in grado di attirare interesse e desiderio. La definiscono «scaltra peruviana» e parlano di «nottata goliardica». Non sembrano capire che lo stupro è affermazione di potere, non irrefrenabile attrazione per la vittima. Umiliazione, non desiderio.
C’è della birra in questa «nottata». Appare proprio tanta, troppa, quando le quattro attrici contano le bottiglie, una a una, ossessivamente. Ed è una angoscia quando attraverso le parole fanno rivivere la scena in tutta la sua violenza. Violenza che si ripete quando la ragazza va a denunciare il fatto e i poliziotti la trattano come se fosse lei la colpevole. La denuncia diventa motivo di vergogna.
In scene sono quattro attrici, perché quello rivissuto a teatro non è un caso isolato: se ne sentono troppi e per il tempo dello spettacolo l’immedesimazione con la vittima è forte. Violenza di uno, violenza del branco, violenza che si ripete nelle fasi successive, con la denuncia, il successivo processo, l’implacabilità dell’opinione pubblica: a finire sul banco degli imputati è la vittima.
Questa volta sul banco degli imputati si sentono anche gli spettatori, perché la pièce colpisce nel profondo, chiede riflessioni. Mentre le quattro attrici raccontano le ferite devastanti subite dalla vittima le spettatrici sentono a lora volta sul proprio corpo quelle ferite della violenza. E gli spettatori? El violador es tu, ripetono alla fine le attrici in spagnolo, perché anche il non credere che quello sia stato uno stupro, anche solo ipotizzare che la vittima fosse consenziente è un’altra violenza. Ed è una violenza pensare che la vittima abbia provocato con il suo abito: pensare «te la sei cercata» è un’altra violenza. Così nella prima parte sono le parole a scuotere le coscienze, a far sentire il male che va nel profondo, le ferite che toccano il corpo e restano indelebili, distruggendo la vita stessa.
Dopo questa prima parte le quattro attrici sul fondo della scena si mettono al collo ghirlande, collane. Hanno diritto a vestirsi come vogliono, senza che questo venga interpretato come una provocazione, un lasciapassare per la violenza, perché il violentatore sei tu: loro sono le vittime. E loro indossano un quasi abito come una corazza da Wonder Woman.
Scritta da Antonio Latella e Federico Bellini Wonder Woman è una pièce sicuramente disturbante, sconvolgente, che usa le parole più crude che mai si siano sentite in teatro. E sono parole, espressioni di gesti, che oltre alla vittima – oltre alle vittime, perché questo non è certo un caso unico – feriscono profondamente gli spettatori. Certo le parole sentite, grazie alla regia di Antonio Latella, non possono lasciare indifferenti. L’iniziale repulsione di fronte alla sentenza è diventata consapevolezza di chi è carnefice e chi vittima, senza mai inversione dei ruoli e senza giustificazione per il/i carnefice/i.
Alla fine le quattro bravissime attrici appaiono anche loro segnate da quanto avvenuto in scena. Sono Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Beatrice Verzotti, Chiara Ferrara, quest’ultima vista anche in Chi come me. I lunghissimi applausi che le accolgono si possono anche considerare un atto di compartecipazione? Un modo per dire «mai più»?
(Nella foto, una scena di Wonder Woman con la regia di Antonio Latella)
Wonder Woman
di Antonio Latella e Federico Bellini
regia Antonio Latella
con Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti
costumi Simona D’Amico, musiche e suono Franco Visioli, movimenti Francesco Manetti e Isacco Venturini
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa in collaborazione con Stabilemobile
Durata: 80 minuti senza intervallo
a Milano, Piccolo Teatro Studio Melato (via Rivoli 6 – M2 Lanza), dal 5 al 10 maggio 2025 (martedì, giovedì e sabato ore 19.30; lunedì, mercoledì e venerdì ore 20.30). Prezzi: platea 33 euro, balconata 26 euro