Il Falstaff veneto tra il Bardo e Feydeau

Ben vengano i bandi nazionali ed europei o gli accordi regionali, come il Progetto Te.S.eO. Veneto – Teatro Scuola e Occupazione, quando ben gestiti e con gli stessi risultati finali che si possono apprezzare in Le allegre comari di Windsor, lo spettacolo presentato in questi giorni al Teatro Romano di Verona e al Teatro Verdi di Padova. Con la sua storica squadra di collaboratori il regista Andrea Chiodi si è messo alla testa dell’operazione e ha riportato in scena una delle commedie più celebri di Shakespeare, testo famoso – storicamente fondamentale anche nella versione lirica del Falstaff di Verdi – ma non particolarmente frequente sui palcoscenici italiani.

In primo piano il giovane Davide Falbo (attore circa trentenne, formatosi nell’ambito della scuola veneta) nel ruolo del cavaliere buffone di taglia XXXL, dall’appetito insaziabile per cibo, bevande e donne, resuscitato dalla sua tomba teatrale da Shakespeare per esplicito desiderio della Regina Elisabetta dopo il successo dell’Enrico IV. La giovane età del protagonista modifica radicalmente i rapporti tra tutti i personaggi della vicenda e rende più evidente il senso sottinteso del testo, dove gli aspetti “leggeri” di evasione dai problemi della vita di corte criticano le differenze di censo e il disimpegno rispetto ai reali problemi politici e sociali.

In tal senso vanno riconosciuti in primo luogo ad Angela Demattè notevoli meriti, non solo per aver trovato una lingua italiana particolarmente adatta a riprodurre l’arcaicità dei costrutti coniugata però con una fruibilità tutta contemporanea, ma per aver sveltiti una notevole serie di problemi drammaturgici che l’originale si trascina da secoli (dovuti, sembra, alla velocità con cui il Bardo fu costretto a stilare il nuovo testo in sole due settimane). Il copione così offerto al regista viene seguito nelle due vicende principali: Falstaff che manda due identiche lettere d’amore alle due ricche dame sposate che intende corteggiare e le traversie del gelosissimo Messer Ford che si finge Sir Brook per scoprire i tradimenti della moglie, con la ventina di ruoli previsti nel cast originario ridotta a soli nove interpreti (in gran parte giovani maturati, come il protagonista, nelle scuole della Regione Veneto).

Una versione italiana così concepita permette ad Andrea Chiodi di velocizzare al massimo le azioni, ma anche di chiarificare l’intera struttura comica degli intrecci, tutt’altro che semplice, senza però omettere gli aspetti umanamente più seri (molto chiaro qui come Messer Ford sia il fratello minore di Otello, altrettanto malato di gelosia, in quest’occasione visto nel suo versante più ridicolo). Ovviamente se ne avvantaggia anche l’accelerazione delle burle di cui Falstaff diventa vittima, la fuga dentro la cesta dei panni sporchi, il travestimento in abiti muliebri da vecchia zia, il mascheramento con corna di cervo sotto la quercia di Windsor.

A condurre la sarabanda dei giochi e degli equivoci la regia ha posto la figura emblematica di Eva Robin’s nel ruolo di Madama Quickly (altro personaggio ripreso dall’Enrico IV, che ora diventa l’artefice fondamentale di combini e maneggi amorosi tra il lecito e l’illecito), attrice a cui è spesso concesso di lasciarsi andare in gustosissime battute in puro dialetto bolognese. Assolutamente sublime quando, in riferimento a Falstaff costretto a indossare abiti da donna, è proprio lei a pronunciare la battuta “Travestito! Sì, travestito!”. Accanto, nel complesso ruolo di Messer Ford, ha un Angelo Di Genio sempre più maturo e ammirevole nella gestualità e nell’uso dei passaggi tonali (anche all’interno della singola parola) per indicare le variazioni di umori e intenzioni interpretative.

La recitazione complessiva degli attori diventa uno degli aspetti vincenti dello spettacolo, in quanto sono stati portati a trovare e a restituire tutti in modo omogeneo un comune ritmo adeguatamente accelerato e insieme non eccessivamente frenetico, indispensabile per la lettura incalzante degli eventi scenici. Particolarmente apprezzabile il lavoro fatto sul (e con il) protagonista Davide Falbo, che generosamente si è offerto con una fisicità giocata tra la provocazione e lo sberleffo. Con questa prova si mette in luce per future interpretazioni di caratura anche più complessa.

Nell’insieme lo spettacolo si fa apprezzare come un’esplosione continua di idee e di intelligenti intuizioni, in una meccanica comica elisabettiana restituita in modelli e ritmi alla Feydeau. La sequenza delle porte che si aprono e si chiudono, con la fila dei personaggi che si rincorrono a vuoto senza riuscire a raggiungersi, potrebbe infatti esser inserita a pieno titolo in qualsivoglia pochade del teatro del Secondo impero. Divertimento assicurato per tutte le tipologie di pubblico, e per qualsiasi tipologia di spazio.

Dopo il debutto negli spazi del Teatro Romano di Verona, dove la scena di Guido Buganza concepita come un enorme ambiente in tartan scozzese appariva di dimensioni relativamente ridotte ed era tenuta lontana dal pubblico e dopo la versione per 100 spettatori allestita sul palco del Teatro Verdi di Padova, sarà curioso vederne l’effetto in un classico teatro all’italiana come il Teatro Goldoni di Venezia. L’agenda l’annuncia nelle date delle prossime festività natalizie, capodanno compreso.

(Nella foto di Serena Pea, una scena da Le allegre comari di Windsor)