Teatro Povero di Monticchiello: il futuro corre sul filo

Autodramma n.56 a Monticchiello, lavoro molto indicativo nel rinnovamento di questa particolarissima esperienza, che nel corso dei decenni ha attirato un’attenzione sempre più insistente di pubblico, studiosi, critica e amanti del teatro, con riconoscimenti e premi di prestigio, come il Premio UBU 2011 e l’ANCT-Hystrio 2011.

Per i pochi che non lo ricordassero la definizione di “autodramma” è dovuta a Giorgio Strehler, che fu tra i primi (correvano gli inizi dei ’60) a capire e apprezzare l’importanza sociale e politica, oltre che artistica, di un borgo toscano di qualche centinaio di cittadini,  che durante l’inverno scelgono un tema fondante del loro vivere quotidiano collettivo. E ne fanno motore di ragionamento per sé stessi e soggetto di spettacolo e di rispecchiamento da proporre in estate a spettatori “foresti”, rivestendo il ruolo di attori che recitano sé stessi. Si andavano plasmando nel periodo del boom e della fine della mezzadria le forme e i contenuti di quello che sarebbe diventato per tutti l’Autodramma ideato, scritto e realizzato dalla gente di Monticchiello. (A chi non conosce quest’esperienza così particolare si consiglia caldamente di leggerne tutta la storia sulle pagine del sito web).

Questa premessa permette di parlare di Andrea Cresti, figura fondamentale della storia del Teatro Povero di Monticchiello, che fin dagli anni ‘80 ne ha plasmato identità e caratteristiche, non solo da regista, ma anche come guida nella drammaturgia collettiva e sperimentatore di moduli in grado di coniugare sperimentazione internazionale e attività laboratoriale locale. Per più di tre decenni, tra la fine luglio e l’inizio dell’agosto, nella piazzetta principale del paese s’è dunque consolidata l’abitudine di sistemare in un punto cruciale il palco, su cui replicare lo spettacolo dell’anno, un palco mobile che veniva montato in serata prima della rappresentazione e tolto subito a fine recita, onde permettere di nuovo la circolazione (non solo delle auto) tra la parte alta e quella inferiore del paese.

Andrea Cresti si è spento tre anni fa, proprio nei momenti di inizio lockdown. Il lutto non poteva però bloccare l’evento, diventato nei decenni identitario del paese, suo fulcro commerciale e culturale. Né il paese poteva più rinunciare agli introiti economici (cene toscane nella cantina della chiesa trasformata nella Taverna del Bronzone, soggiorni nei tanti B&B entro e fuori le mura) con spettatori in arrivo da ogni latitudine (moltissimi gli internazionali). Quindi oggi il testimone è passato a una figura che aveva lavorato a lungo accanto a Cresti, il giovane Giampiero Giglioni in tandem con Manfredi Rutelli, e dal 2020 all’autodramma è stato impresso un nuovo corso fatto di una differente concezione di intenti. Ancora però salgono sul palco a recitare gli abitanti di Monticchiello – in numero variabile ogni sera a seconda delle disponibilità, ma con un nucleo intorno alle 35 presenze, tra i 6 e gli 85 anni, italiani d’origine ma anche nuovi italiani d’immigrazione -, a cui si aggiungono le tante persone della collettività che sul palco non si vedono ma che gestiscono tecnica, ospitalità e altre esigenze. Se si calcola che la popolazione ufficiale del paese assomma a poco più di 200 unità, si ha un’idea delle dimensioni del fenomeno del Teatro Povero.

Già lo scorso anno si era intuito che i due nuovi registi intendevano portare lo spettacolo su una linea più popolare e più distante dalla complessità intellettuale della ricerca di Cresti. Per questo si attendeva con particolare impazienza Ultima Chiamata, spettacolo in programma quest’estate 2022, come test di conferma o smentita di quelle intuizioni. Al centro di tutto il telefono, la sua storia, il suo uso, l’influenza sul costume dalla seconda metà del secolo scorso al futuro prossimo venturo. 1956: l’unico apparecchio telefonico di Monticchiello è situato nella locale sezione del Partito Comunista e si attendono dalla sede centrale di Roma le istruzioni sulla linea da tenere in relazione all’imminente invasione sovietica dell’Ungheria, mentre nell’ufficio postale il parroco e altri adepti DC tengono riunioni carbonare con il prefetto per contrastare le iniziative dei “rossi”. In tale contrasto tra i Pepponi e i Don Camilli di Val d’Orcia si distinguono le donne, che intendono cucire le bandiere da far sventolare su tutti i covoni fino a Siena, in una grande manifestazione contadina a favore della pace (l’episodio è un fatto autentico registrato dalle cronache storiche), ma finiranno per cedere anche loro alle ragioni romane del Partito. Fine capitolo primo. Seguono immagini di eventi del secolo scorso e di inizio millennio che portano fino ai recenti camion bergamaschi carichi delle vittime Covid e alla Guerra d’Ucraina. Ci si ritrova dunque in un domani molto prossimo, in un basso medioevo venturo dominato da un Direttore ragazzino che davanti a un pubblico festante e sottomesso comunica attraverso uno schermo da cui, esperto in retorica populista, esorta, parla di cose favolose, lusinga, sprona, preannuncia l’ingresso in un’epoca di rinnovamento e prosperità per tutti. La realtà lo smentirà a breve, perché il mondo si è presto ridotto a una sorta di deserto, senza giornali e tv da cui attingere informazioni, senza telefonini con cui comunicare, senza più la memoria collettiva ad essi affidata, con i beni essenziali razionati (acqua, luce e gas per primi) e col commercio tornato alle forme del baratto. Fine capitolo centrale e intro all’epilogo. La nipote della donna che nel ’56 aveva piegato la testa davanti alle direttive del Partito ritrova la valigia, in cui la nonna aveva riposto le bandiere cucite dalle donne, mentre la popolazione scopre che il cavo di connessione coll’antico telefono della sezione del PCI è ancora miracolosamente attivo. Tutti insieme, anziani, adulti e bambini possono così appendere al fondale la grande bandiera cucita nel ’56, su cui campeggia la dichiarazione Le donne di Monticchiello vogliono la terra no la guerra. The End del viaggio tra passato, futuro e presente.

Ci si è soffermati sullo svolgimento delle vicende per poter indicare come nel nuovo corso dell’autodramma siano del tutto assenti i temi autoctoni di un’attualità pressante e urgente che l’avevano sempre caratterizzato. Specifica del paesino toscano resta la memoria di personaggi ed episodi autentici del passato, mentre la maggior parte delle scene rappresentate vien sviluppata con una fantasia quasi da Sci-Fi in una sit-com del Granducato interpretata dal vivo. Sì, ci troviamo nel borgo medioevale della Val d’Orcia, in Toscana, ma potremmo essere in qualsiasi altra landa della provincia italiana. Se fino all’epoca precedente alla pandemia attraverso l’autodramma era possibile per lo spettatore riflettere sulla realtà universale, partendo dalle piccole/grandi esperienze proposte sul palco, ora è proprio questa realtà universale a riflettersi nella realtà locale, come accade in qualsiasi commedia all’italiana di stampo televisivo. Sembra che sia vicino il rischio di una vera rivoluzione copernicana dell’autodramma di Monticchiello in cui possa venir meno, in funzione della salvaguardia di una popolarità e di una fama acquisite, proprio la specificità dell’esperienza teatrale e antropologica. Anche la scelta di portare in scena l’attualità più recente come la guerra in Ucraina, tema di sottofondo che compare quasi all’improvviso e mal si incastra con tutti gli altri casi, assume in quest’ottica un sapore più di finzione drammaturgicamente funzionale che non di urlo di indignazione e denuncia. E allo stesso modo non è chiaro quanto ci sia di profondamente sentito nel sottolineare il valore delle donne, impegnate a cucire la grande bandiera della pace, a riparare e rimettere pazientemente e tenacemente in sesto i disastri causati dalla guerra fatta dagli uomini (sono gli uomini a combattere le guerre per assurdi interessi, per iper-esibizione di potenza virile, per spiccioli egoismi). Domanda senza (per ora) possibile risposta: riconoscimento autentico o strizzatina d’occhio a un potere femminile in crescita nel mondo occidentale? Restano il valore di un’esperienza collettiva che ancora fa di Monticchiello una situazione teatrale (ancora?) unica nel panorama nazionale e il piacere di vedere sul palco attori-non attori di totale intensità e incisività, veri nel senso più profondo del termine. E resta l’augurio che il titolo Ultima Chiamata non sia di cattivo auspicio per il futuro dell’autodramma di Monticchiello.

Ultima Chiamata a Monticchiello fino al 14 agosto 2022. Qui, una foto di Emiliano Migliorucci